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storia 4 . i sprybryckx

 

Qualche detrattore inevitabile spenderà la propria voce – toccato forse da una non trascurabile forma di rosicante invidia – per rimproverare a quella squadra e a quelle che con altrettanta fortuna ripercorreranno lo stesso cammino vincente nel quindicennio seguente, di giocare in modo troppo inelegante e rude, di mancare di abbastanza “tecnica”, certo ignorando che il termine non intende affatto significare qualcosa di inutilmente estetizzante. In quegli anni il fraintendimento di questo “dettaglio” era piuttosto comune e molto evidente.

I risultati della Tarvisium – che, per citare qualcuno molto famoso, pensava al rugby come architettura e non come decorazione di interni – dimostravano come il proprio stile di gioco, solido, essenziale e certamente pugnace, guardasse sostanzialmente più al rugby che si praticava nei Paesi più evoluti che alle nostrane vaghezze. La definizione che più incarnava il nostro modo di pensarlo si riassumeva in queste parole: «Il rugby è un gioco collettivo di combattimento». In questa frase e nei quattro principi fondamentali stava interamente inscritta la nostra “filosofia” – tutto il resto era superfluo, se non, peggio, controproducente. Se volevamo vincere dovevamo fare le cose perfette nei tempi precisi. In questo e solo in questo, quando ci riusciva, riconoscevamo la “ bellezza”.

L’under 19 che aveva vinto lo scudetto ospitò verso la fine del 1973 la squadra universitaria di Stellenbosh, vincitrice dell’omologo campionato sudafricano. Dotati di una fisicità devastante e di una interpretazione regolamentare molto aperta (la “cravatta” e il placcaggio al collo pareva essere il loro unico modo di fermare un avversario) gli africaners usarono tutta la vasta sapienza “muscolare” della cultura rugbystica di quel Paese per imporci la loro superiorità. Ciò nonostante la nostra squadra riuscì a inaridire le fonti del loro gioco resistendo stoicamente ai loro impatti furenti sacrificandosi in una serie interminabile di placcaggi e portò una pressione asfissiante che li costrinse a retrocedere; contestò ogni pallone e qualcuno riuscì a recuperarlo: (gestì meravigliosamente le poche occasioni favorevoli eludendo con pochi forse poco estetici ma molto efficaci) passaggi segnò i punti necessari per batterli.
La squadra aveva vinto il suo primo incontro internazionale dimostrando a se stessa – e agli scettici – di aver compreso prima e meglio di altri l’essenza di questo sport. Pochi giorni dopo quegli stessi avversari vinsero contro la Nazionale giovanile Italiana.
Non è facile dire da dove potesse derivare quel modo impudente di affrontare le sfide e ci è sempre piaciuto pensare che fosse dovuto alle particolari circostanze e al singolare microcosmo umano in cui tutto ha avuto inizio. Nei primi anni settanta quando, soprattutto in periferia, la vita trascorreva quasi per l’intero pomeriggio dentro i bar, (ben pochi avevano l’auto e qualche soldo e le partite si guardavano insieme in uno dei due canali in bianco e nero della rai, se la tivù non faceva i “risi”) là dentro si costituivano – divise per età – le compagnie dei ragazzi. Naturalmente quelle dei “grandi” imponevano gerarchicamente a quelle dei “cei” bonarie prepotenze, arbitrari capricci ed estrose canzonature. Non c’era vera ostilità, si trattava perlopiù del modo un po’ burbero di costringere i più piccoli a conquistarsi giorno dopo giorno la benevolenza dei fratelli maggiori, il diritto di mischiarsi nelle loro discussioni senza venire immediatamente zittiti, di occupare il biliardo o un posto al tavolo delle carte senza esserne allontanati, spesso per burla e con finta cattiveria comunque.
Si trattava in fondo di una specie di viatico di iniziazione, una sorta di “patente di maturità” extrascolastica ed extra familiare senza la quale non era possibile entrare a far veramente parte del mondo adulto. Per quanto possa magari essere discutibile dal punto di vista della scienza pedagogica, che vi saprà ravvisare certamente centinaia di pericolosissime implicazioni, questo modo di diventare grandi accettando le sfide e di guadagnarsi sgomitando gli spazi espressivi della propria personalità rappresentava una formidabile palestra formativa.
Va da se che questo genere di confronto generazionale dovesse valere anche per la Tarvisium che in pochi anni trovò frammischiati nel quartiere i suoi vecchi giocatori, ormai quasi tutti trasferiti in altre società, e le più giovani leve che nel frattempo li avevano sostituiti nella squadra. Perciò la decisione di misurare sul campo la loro forza, il carattere e, quindi, il loro “diritto” a vestire la gloriosa maglietta e a cantare le canzoni, apparve ai “veci” ovvio e naturale. Il confronto tra le reciproche presunzioni, provocatorie e beffarde, fu deciso dai fuoriusciti che organizzarono una loro squadra per giocare durante la sosta natalizia dei vari campionati una partita per poter testare la reale consistenza morale dei nuovi ruggers. Arbitro el Nata, il giorno della vigilia di Natale del 1971, per la prima volta le due squadre si trovarono di fronte. Gli olders vestendo ognuno la maglietta più importante del suo guardaroba (del nuovo club, della Nazionale, di qualche rappresentativa straniera contro la quale aveva giocato) scesero in campo col nome di Spryryckx. La paternità dell’impronunciabile termine si deve a Caio Irish, che tentando di dire qualcosa a proposito dei sudafricani – di loro avevamo tutti in quel tempo un’immagine mitica e reverenziale – storpiò orrendamente la parola Spingboks, suscitando l’irrefrenabile ilarità degli amici del bar che decisero di adottarla perchè rappresentava molto bene lo spirito goliardico che animava il gruppo. La sfida che pareva dover essere solo pretesto, una sorta di preludio vagamente agonistico alla cena che sarebbe seguita – naturalmente pagata dai veci, ognuno idealmente al proprio diretto rivale – si rivelò invece nel campo aspra e piena di tensioni nervose: nessuno dei contendenti intendeva cedere di un solo millimetro, pena il naturale insopportabile scherno dei vincitori verso gli sconfitti per lunghi infiniti mesi, fino alla sfida successiva.
Per molti anni l’incontro della vigilia conservò questo spirito e alcune partite furono davvero incandescenti, perlomeno fino a quando il divario fisico e di preparazione tra gli “under” e i “senior” non diventerà troppo netto e pericolosamente incolmabile. Ma per quasi vent’anni, a partire da quella prima volta, la differenza in campo non apparve troppo sensibile, né i valori tecnico/tattici troppo distanti. I ragazzi della giovanile, lasciati soli per l’intera settimana precedente, (gli adulti, allenatore compreso, ovviamente facevano parte – giocasse o meno – degli Sprybryckx) agli ordini del proprio capitano si preparavano molto coscienziosamente e in modo per nulla pretenzioso, per battere i vecchi e la loro insolenza. In più di qualche occasione i “cei” arrivarono a un passo dal successo, ma, non senza qualche malizia, e fors’anche un po’ immeritatamente, i “veci” hanno sempre prevalso. Il fischio finale ha però stemperato ogni volta in un lungo intensissimo e caloroso abbraccio generale qualsiasi residuo polemico. Tutta la tensione accumulata si è sistematicamente dissolta nel brivido di una gioia totale e sconfinata, senza vincitori ne vinti, ZOGHEMO CONTRO CO SEMO IN CAMPO MA SEMO TUTI DEL STESSO STAMPO!
Chi ha avuto la fortuna di giocare a rugby – a qualsiasi livello e a ogni latitudine – conosce quanto profondamente questa disciplina ha segnato la sua intera esistenza e come, ancora più significativamente, la festa dopo una grande partita ha reso indimenticabile e speciale la felicità di quei momenti. Tarvisium e Sprybryckx, annegati insieme in un mare di “ombre”, senza più un filo di voce per il troppo ridere e il troppo cantare, (anche comporre canzoni era una bella interminabile gara) hanno avuto lunghe giornate e lunghissime notti veramente felici.