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presa al volo / n°36

ho fatto un sogno

 

Abbiamo il piacere di ricevere e di proporre un articolo del nostro grande amico Paolo Marta che ci parla di un sogno … veramente bello!

Volendolo, questo sogno lo si potrebbe anche realizzare, gli spazi possono esserci, le intenzioni anche… è però necessario “fare … il buon fare… lo ricordiamo?
In questo caso però il “buon fare” non può essere espressione solo di una singola persona, vanno uniti tra molti e diversi “attori” con la voglia di fare, la volontà di fare, le forze per fare e la disponibilità delle risorse per poter fare.
Dire ciò è sin troppo facile, ma per farlo, per tentare, è necessaria una grande volontà, una forte determinazione ed un grande legame tra tutti coloro che potrebbero realizzare questo sogno… quindi, per fare, è necessario essere SQUADRA!!!
Lo siamo?
Sarebbe veramente bello provarci!!!
Buona lettura…
GF
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Ho fatto un sogno

 
Abitavo in un paese in cui i giardini pubblici esistevano ed erano stati disegnati da mani attente, capaci di trasformare delle semplici linee in forme piacevoli che ti ammaliavano. Ma se in quei giardini ci entravi ti accorgevi che la realtà aveva travolto le idee degli artisti: l'erba era inospitale, i rifiuti sparsi ovunque, le panchine imbrattate e inutilizzabili, i giochi rotti. Ed erano quasi deserti. Luoghi “per la gente” dove la gente non ci andava. Nemmeno quando il sole era alto ed il cielo terso. I pochi bambini che in quel paese ancora preferivano ai computer i giochi veri, calciavano il pallone nelle strade meno frequentate sfidando le automobili ed i vigili. D'altro canto nell'erba alta il pallone non voleva proprio rotolare. E poi era vietato. Troppo pericoloso.
Le poche persone che stazionavano nei giardini non erano cordiali. Sembravano rivendicarne la proprietà come si fa quando si trova una cosa abbandonata. E ci stavano bene. E non volevano scocciatori tra i piedi. Soprattutto quelli che potevano ricordargli le regole che avrebbero dovuto rispettare.
Un giorno il capo della città pensò che, per poter rinascere, i giardini pubblici avrebbero avuto bisogno di una nuova anima. Decise innanzitutto che sarebbe stato possibile giocarci con la palla e che per evitare che prendesse in testa qualcuno sarebbe stato sufficiente creare delle collinette o piantare delle piante e delle siepi. Non solo. Installò anche delle reti per giocare a pallavolo e realizzò dei percorsi per chi aveva voglia di passeggiare. Rubò al verde un fazzoletto di superficie per creare un piccolo campo in cemento dove poter giocare a pallacanestro e non solo. Anche dopo la pioggia. Anche quando il fango poteva diventare una buona scusa per preferire la tv o il computer. E mise al lavoro la creatività dei propri collaboratori che inventarono nuovi giochi da usare sia per divertirsi che per fare attività fisica. Anche contemporaneamente.
Infine diede a quei luoghi un nome che rappresentasse l'inizio del nuovo corso.
In quel paese, i giardini pubblici si sarebbero chiamati: parchi sportivi.
Ma il capo della città, che già aveva fatto un grande sforzo, sapeva che nelle casse non c'erano soldi a sufficienza per poter mantenere efficienti i nuovi parchi e soprattutto che, per renderli e mantenerli vivi, serviva qualcosa di più.
Chiamò allora tutte le società sportive del paese e chiese loro chi avesse intenzione di gestire i giardini che aveva trasformato. Anche insieme. Mettendosi d'accordo tra loro. Creando delle nuove forme di collaborazione. La proposta era questa: le società, sempre alla ricerca di nuovi spazi dove praticare sport, avrebbero potuto utilizzarli per allenarsi, per organizzare manifestazioni (non solo sportive e, all'occorrenza, finalizzate al loro sostentamento), per promuovere la loro attività. In cambio avrebbero dovuto tagliare l'erba, mantenere efficienti le strutture, presidiare il giardino affinché nessuno lo danneggiasse e tenerlo sempre aperto, anche alle persone comuni, alle scuole, alle associazioni. Sempre. Anche quando gli atleti si sarebbero allenati. E così, chiunque, adulto o bambino, gli atleti li avrebbe potuti osservare da vicino. Accorciando le distanze. E magari conoscerli e respirare il profumo del sano movimento. E negli altri orari avrebbero potuto utilizzare tutte le attrezzature e gli spazi per giocare liberamente, con o senza la palla, per svolgere le loro attività amatoriale o per imparare a praticare qualche nuovo sport magari sotto la guida dei nuovi gestori.
Non tutte le società aderirono a questa proposta, ma quelle che lo fecero si misero subito al lavoro.
In poco tempo i giardini divennero parchi sportivi per davvero e ripresero a vivere. Quelli che erano diventati luoghi da evitare si trasformarono in isole sicure. Luci sempre accese nella città. Punti di riferimento per chiunque la “passeggiasse”.
Ebbi l'impressione di vedere, nel campetto di volley ricavato in mezzo ad un prato verde, mia figlia allenarsi assieme alle sue compagne in un tardo e profumato pomeriggio di primavera mentre le mamme, sedute sulle panchine, le osservavano e parlavano tra loro; nel prato affianco c'erano dei ragazzini che giocavano a pallone e sulle collinette dei bambini più piccoli che rotolavano, si inseguivano e ridevano accompagnati dai genitori. E lungo il percorso in terra battuta persone che correvano, altre che passeggiavano, altre che parlavano e sorridevano e, in fondo, un gruppo di giovani atleti con la maglietta dello stesso colore che si scaldavano insieme agli istruttori prima dell'allenamento previsto nel campo da basket dove stava finendo una sfida tra vecchi amici.
Sono certo che tutti gli sport facciano rima con cultura. Ma io sono cresciuto nel rugby e posso parlare solo di ciò che conosco. L'ho sempre ritenuto una religione laica con regole che ti impregnano la pelle e ti entrano nel cuore. Le porti con te anche fuori dal campo. Anche dopo che hai smesso di giocare. Perché si è rugbisti sempre. E non solo per la nostra formidabile capacità di ingurgitare birra. Una delle lezioni più importanti che abbiamo imparato è che noi siamo quello che facciamo non quello che diciamo di essere. E mi sono convinto che il buon fare sia la ricetta più efficace per rendere il mondo migliore.
Il movimento, il sano movimento, porta con sé questo valore. Dove le persone si muovono, soprattutto in modo spontaneo, si respira positività. Pulsa un cuore, si percepisce un'anima. Le società sportive in questo senso svolgono un'azione formidabile. Ma soprattutto oggi, in cui la virtualità sembra avere la meglio sulla realtà e gli spazi rimasti vuoti si sono via via riempiti di spine, sarebbe importante che uscissero dal recinto degli impianti e portassero alla gente il loro messaggio.
Lo so. Non è facile. C'è bisogno di aiuto e di sostegno.
Ecco: un inizio potrebbe essere trasformare qualche giardino pubblico in parco sportivo.
Non solo con l'aiuto del capo del paese e/o di qualche imprenditore illuminato, ma con l'aiuto di tutti: il modo migliore per realizzare un sogno.

Paolo Marta